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Cose da grandi

La prima volta dei viaggi di lavoro, dell’ansia da prestazione estrema e del senso di inadeguatezza tutto sommato malcelato e, a tratti, appropriato. La prima volta degli abbordi in ascensore, facciamo finta che il sonno e il poco alcool possano avere la meglio su di noi. Diabolico strumento whatsapp, che ti può ritorcere contro ogni conversazione, negare l’evidenza e tenerne prova. Torno (a casa) tutto sommato arricchita, dubbiosa, vagamente imbarazzata, felice e arrabbiata nello stesso tempo. Benvenuta nel mondo dei grandi, dove le scelte hanno delle conseguenze, ma le persone continueranno a fingere che non sia così. Benvenuta nel mondo dei grandi, dove cambiare idea comincia a diventare difficile nonostante tu abbia fatto il percorso più lineare del mondo, sinora. Benvenuta nel mondo dei grandi, dove abbandonarsi al conforto e alla sicurezza del nido familiare, o di ogni sua proiezione, è più rischioso e difficile che mai.

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Cammini da romana [@mars]

Ci si son messi gli agenti atmosferici, notti in bianco per le consegne, il famoso “traffico de roma”, il taxi condiviso, la nausea (pure quella, condivisa) e un telefono scarico in una città sconosciuta. Ci hanno provato gli eventi, a mettersi in mezzo, eppure sono riuscita a partire lo stesso. A guardare l’Elba dall’alto, a spiccicare qualcosa in francese, a parlare di politica e di femminismi, a festeggiare degnamente i trenta di V., coinquilina dell’anima, che non se li sente e non li dimostra.

Ed è stata una città nuova, e magnifica.
Ed è stata la paura dei ripensamenti sulle mie scelte, spazzata via da quel senso di appartenenza che mi lega a questa città, riconosciuto dopo tanto tempo, atterrando a Ciampino.

La stanchezza fisica si mischia con la nostalgia, l’amore incondizionato passa per baci artefatti, torno mezza malata ed è di nuovo affannarsi di scadenze e interfacciarsi con filosofie intrinsecamente errate (ma dominanti, perloppiù). E dunque cammino se non corro, spero che passerà indenne questo maggio frenetico, ché come dice qualcuno (sarà il dna) noi diamo il meglio sotto pressione.

Russian roulette is not the same without a gun.

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Out of town.

Ho preso un treno e attraversato due paesi. E’ il mio viaggio di lavoro in solitaria, per esplorare solitudini e soddisfazioni, per progettare piani e insieme giustificarmi, ché mica l’ho cominciato, il PhD, mica è il mio settore, questo, mica ho un grande e cazzuto gruppo alle spalle, io. Ho solo un mentore che mi capisce, e quando gli scrivo ‘non è furbo continuare a mandarmi per conferenze, al ritorno romperò ancora più le scatole‘ risponde ‘io non faccio cose furbe, ma cose giuste’.

Sono in questa città da cui non sapevo cosa aspettarmi e che, forse proprio per l’assenza di aspettative, mi piace.

A osservare luoghi possibili. A capire le chiacchiere (inglesi o tedesche), a conoscere soggetti leggendari, ad approfittare della cena in un posto dove, da sola, non sarei stata mai. Ad elaborare connessioni. A rifarmi con il nuovo entusiasmo delle delusioni della settimana passata. Ad assaggiare nuovi orizzonti.

A., ancora A., si insinua nei pensieri. Lui e il suo regalo per la mia laurea, lui e gli imbarazzi, e le distanze sempre più brevi. Io che dico forse non dovremmo vederci più nell’istante esatto in cui sto pensando che non c’è, nonostante tutto, al mondo, almeno in questo momento, una persona che mi faccia stare così bene. Lui che, finalmente, mi bacia. E mi ripete tutto quello che io, con la solita, pallosissima, lungimiranza, avevo dichiarato mesi fa: noi dobbiamo essere una scelta. E quando gli dico mi manchi dice anche tu, e mi regala in un momento la conferma di non essere impazzita, a passare un’estate a rimuginare su quello che eravamo (stati). E mi racconta che è stato difficile. E io vorrei prenderlo a pugni e invece dico quello che penso, tanto ormai siamo su questa strada, inutile forzarsi a scegliere un’altra direzione. Aspettiamo, ancora, e nel frattempo torniamo a vivere. Questa è la risposta.

E’ iniziata una parte nuova della mia vita. E mi sa che ho trovato lo spirito giusto.
E staserà brinderò, da sola, alla mia impresa.

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And I miss you, like you were mine.

Tento di mantenere il controllo.

Di farci stare tutto, di riempire i buchi in quella che era la mia casa, con il coinquilino del cuore che se ne va e V. che mi fa arrabbiare a distanza ma immagino mi mancherà, quando questi fantomatici altri lidi se la porteranno via.

Così, elenchiamo colloqui e mezzore nella speranza di cogliere l’essenza di persone con cui condividere la vita per l’anno che viene. Cerchiamo di capire dai gesti, offriamo caffè a improbabili tizi fingendoci neutre, quasi interessate agli obbiettivi della vita di chi abbiamo davanti (per venti minuti o per i prossimi dodici mesi?). E’ il gioco delle parti di questa generazione precaria, con una condivisione forzata la cui comprensione, più di tutto, segna il gap generazionale tra noi e i nostri genitori (o mentori, come nel mio caso), usciti dal nido familiare d’origine solo per mettersi un tetto sopra la testa e progettare, casa lavoro famiglia.

Io tento di controllare tutto.

E, ironia della sorte, più tento di prevedere, organizzare, programmare, più si avvicinano eventi, prove e scelte da compiere il cui esito è quantomai incerto, casuale, forse guidato da un’immaginaria calamita verso ciò a cui siamo destinati, o forse solo cruciale per scegliere il nostro percorso nella storia a bivi che racconta tutte le nostre vite possibili.

A momenti credo che ci sarà un compimento per tutto ciò che deve essere. E sono fiduciosa perché penso che, anche se non c’è un filo rosso a legare (proprio tutti) gli eventi, mi muovo secondo le mie passioni, e se mi guardo indietro e mi domando cosa cambierei, delle scelte importanti compiute finora, sulla punta della lingua ho la risposta, niente. Magari cambierà, questa sensazione, ma è bello che adesso sia così.

Vorrei controllare tutto, quindi non sopporto le cose incompiute. Ho bisogno di trovare i significati e la morale della storia, come nelle favole da bambina. Guardo A. attraverso il vetro del mio pub preferito. Lo vedo bellissimo anche con quell’aria che ha, di uno che si sente sempre un po’ fuori posto. E penso, ti pare che ho perso la testa per lui. Quando ripeto i miei interrogativi a B. lei dice solo sì, ha senso. E io, mentre guida come una pazza sotto la pioggia, capisco che mi mancherà più del previsto, durante il suo inverno parigino.

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Primo approccio

Alla mia prima conferenza ho presentato un lavoro con tante ansie, molte immotivate. E’ piaciuto, un po’, e mi sono resa conto mano a mano che qualunque cosa succederà, d’ora in poi, questo è un sogno che si avvera. Mi sono innamorata di un uomo piacevolmente elegante e non particolarmente bello, che sa di piacere (e ne concede la percezione). Interessante, adulto, enigmatico. Bello avere occhi per altre persone, anche se probabilmente tutta questa gioia è legata all’entusiasmo, al cambio di prospettiva, all’aria nuova. Ho tenuto banco in conversazioni di uomini, in più occasioni. Ho goduto della camera condivisa in poker di donne, tanto e inaspettatamente. Questa città, inaspettatamente, dopo essere stata considerata, da lontano, solo ‘la città dell’altra C.’ concede un lato buono. Sono felice. Estremamente, inaspettatamente.

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Everything’s gonna be alright, so no woman no cry.

Guardavo il circolo del tennis che c’è vicino al fiume, a Firenze.
E’ uno dei miei punti di riferimento, nei viaggi avanti e indietro dal nord. Ho pensato che avevo voglia di andare a trovare A., insieme a V., per vedere un po’ di cielo, diverso.

Guardavo passare i treni,
seduta sulla panchina che avevo immaginato. I discorsi si inseguivano e c’era una leggerezza nell’aria. C’erano poche nuvole piccole, che dopo un po’ se ne sono andate, e c’era una luna grande. C’eravamo noi, i discorsi, l’armonica (ah).

C’ero io a cancellare i pensamenti (ri-pensamenti, non sarebbe corretto chiamarli). C’era anche un po’ M., nella mia testa e nelle sicurezze che, nonostante tutto, mi ha dato. In realtà, mi piace la donna che sono diventata.

E tra brutte notizie lontane, dubbi vicini, uniche certezze vittimistiche altrui, paure che non riesco a chiudere nella solita scatola, pensavo, alla fine andrà tutto a posto. Le cose vanno come devono.

Ci sarà per noi un angolo pulito
 in un mondo di mercanti dove il meglio l’ho rubato

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In partenza

Grant my last request,
And just let me hold you.
Don’t shrug your shoulders,
Lay down beside me.
Sure I can accept that we’re going nowhere,
But one last time let’s go there,
Lay down beside me.

Pronta a partire, anche se non ho fatto i bagagli.
Pronta per affrontare gli interrogatori e gli sguardi che credono di aver capito tutto.

Pronta allo studio,
pronta per un altro Natale.

Curiosa di come evolveranno le cose,
dopo questi ottovolanti,
dopo i mutamenti in questa fiducia,
ferocemente costruita,
difesa,
e adesso un po’ scheggiata.

‘Ma stai tranquilla, non è niente,
è solo vita che entra dentro’

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Desideri medi (in a melancholy mood)

Ascolto musica jazz
studiando alla mia scrivania sotto la finestra,

voglio andare a New York, dopo la laurea.

Devo riscrivere i miei desideri, per sapere cosa chiedere quando soffierò sulle candeline, o quando vedrò una stella cadente. Desideri medi, non quelli tipo ‘vincere il nobel’, ‘avere un lavoro decente per la vita’, ‘trovare l’uomo dei miei sogni’ (?!?). Desideri medi, quelli per cui ti puoi impegnare un po’, ma comunque incolpare il destino se non riesci a metterli in pratica. Tipo ‘andare a New York, dopo la laurea’.

Ho scritto i titoli dei brani più belli, gli autori e gli spunti di riflessione sul quaderno degli spunti (quello bello, con la calamita gigante che -penso- mi ha smagnetizzato il bancomat).

Ho chiuso i miei coinquilini su di giri fuori dalla porta,
la pioggia fuori dal vetro,
ho lasciato entrare solo quella luce bianca.

We lived our little drama
We kissed in a field of white
And stars fell on Alabama
Last night

I can’t forget the glamour
Your eyes held a tender light
And stars fell on Alabama

Last night

I never planned in my imagination
A situation – so heavenly
A fairy land where no one else could enter
And in the center – just you and me

My heart beat just like a hammer
My arms wound around you tight
While stars fell on Alabama
Last night

[ma solo io ho la sensazione che, a questa storia qui, manchi un pezzo?]

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Il sole, il mare, il vento (e il tempo che passa)

Poche altre volte come quest’anno ho sentito nella pelle l’arrivo dell’estate. Come qualcosa di inevitabile e voluminoso, con un portato emotivo da tir con rimorchio. Perchè il tempo passa, ci salutiamo per qualche settimana e ci ritroviamo diversi e diverse, le prospettive da luglio a settembre non potrebbero essere più distanti.

Le cose sono straordinariamente andate a posto da sole, prima che partissi. Il mio mentore dai ricci grigi ha potuto quello che le trasferte nel nordest, le bibliografie coatte, i contatti altolocati non avevano potuto. Lui ha una nuova entusiasta, io un nuovo scopo.

E poi ho i miei amanti, fugaci e nascosti o ‘voglio passare la giornata con te, posso dormire qui?’. Ed era da tanto che sentivo il cambiamento di fase in arrivo (forse ci siamo).

Della mia vacanza di sole donne, della terra dove passerò le mie estati in futuro, del pesce fritto e del mare blu parlerò in un altro momento. Ma ci sono stati e si sente (e non è solo per il segno del costume).

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La parola politica ha un significato geografico

O almeno, per me è sempre stato così.

La prima volta l’ho pensato durante il liceo. Quando, ospite di una famiglia tedesca (un po’ tristina, a dire il vero, chè l’amore per la Germania doveva esser messo alla prova dalla mia solita sfortuna negli scambi culturali), con il mio vocabolario arrabattato declinavo ‘…und dann haben wir die Kommunisten’ (pensando -ingenua, me- a Bertinotti) e loro, “i tedeschi”, mi scoppiavano a ridere in faccia come se avessi detto un’eresia. Ci ho messo un po’ a spiegare, e farmi spiagare, i significati reconditi di quel botta e risposta. Al rientro a casa mi sentivo più europea che mai.

Poi l’ho sperimentato quando mi sono trasferita a Roma. Che nella capitale, si sa, tutto è più grande, maestoso, e la provincia denuclearizzata è così facile da dimenticare. Mentre io mi nascondevo nelle ultime file di assemblee sempre più affollate, le mie connessioni venete guardavano il telegiornale e sminuivano le mie sfuriate anti-instituzionali con poche sillabe scettiche. Avevo più ragione io, credo. E forse avrei potuto scegliere connessioni più portate al confronto, in quel caso.

In queste settimane di pausa dalla mia vita vera (definizione buffa ma realistica, mio malgrado) i dibattiti strillati con papà mi hanno fatto tornare alla considerazione di cui si titola. E attendo di tornare nel mio groviglio trafficato, fuori dal tempo eppure al centro del mondo, per far ribaltare -di nuovo- la mia visione delle cose. E ricominciare a sentirmi un pesce fuor d’acqua, che ormai è il mio stato naturale. Anche se non lo ammetto mai, mi rassicura il fatto che, per quanto estremista o partigiano possa diventare il mio pensiero, il relativismo mi scorreva nelle vene prima che ci fosse metodo scientifico. Anche se certi miei interlocutori pensano di no.

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