C’è chi lo sa fare, di non fare programmi.
Di vivere alla giornata, di cogliere il meglio.
Io ho la pianificazione nelle fibre del corpo (genetica o epigenetica? Questo il dubbio), e di sicuro con l’incoscienza non sono a mio agio.
Così come coi recinti: non mi piace mettere i paletti e finisco per lasciar passare tutto e tutti, schiacciandomi per farmi bastare lo spazio che resta. Ma nei recinti da me per me, in quelli sono anche troppo brava a stare.
Non sono brava a tenere i fili col passato, e la pianura padana, che tanto amo guardare dal finestrino, mi soffoca dopo pochissimo (specie in questi giorni, che la nebbia e lo smog e la siccità signoramia). Sul treno ricomincio a sorridere, e mi accorgo dei ruoli che attribuiamo ai luoghi più che alle persone. Ma così va quasi bene, spero.
E così vorrei augurarmi queste cose, per l’anno nuovo. Una lieve incoscienza, per lasciarmi accadere tutte le cose belle e impreviste possibili. Un abbraccio che contiene, che l’amore non mi soffochi. E fare pace con le radici, lasciar andare ciò che ero. (Per dire anche, senza sentirmi una sradicata, io alla cena dei dieci anni dal diploma non ci vengo).
Le zavorre le abbiamo salutate con la mano da lontano, anche se mancano un po’.
Qualche no l’abbiamo detto.
Si può dire un bilancio discreto, tutto sommato.
Possiamo cambiare calendario.
Buon anno.