Sarà la settimana propizia, sarà che sono per qualche giorno nel profondo nordest a fare visita ai miei,
sarà che il mio liceo, qualche giorno dopo i miei esami di maturità, si è trasferito (ironia della sorte) esattamente di fronte al cancello della casa numero uno,
quale che sia il motivo, mi son trovata a ripetizione a pensare al liceo non tornerei neanche se mi pagassero e a ricordare il primo giorno delle superiori – un po’ divertita, un po’ presa dall’imbarazzo a posteriori (quello per cui arrosisci e ti viene la tachicardia a ripensare a particolari eventi – anche a distanza di anni).
Mi ricordo la crisi di pianto la sera prima,
i miei che per rassicurarmi (?) mi dicevano ‘non è detto che tu sia la più brava nella nuova scuola’ e io, non potendo reggere la prospettiva dei miei sogni di gloria infranti, a singhiozzare ancora di più (e visto che in prima media, somatizzando, mi ero fatta venire il fuoco di sant’antonio, tutto sommato è andata bene).
I vestiti che avevo scelto in anticipo,
la maglietta nera, neutra
i pantaloni chiari di Benetton comprati in vacanza (mai più nella vita per sentirmi a mio agio avrei scelto liberamente dei pantaloni chiari)
la felpa fricchettona a quadri, per far capire il mio genere.
Era il 2002 ed eravamo usciti da poco dagli anni Novanta. I residui pervadevano soprattutto la bancata di sinistra, con le ragazze della provincia sud, con dieci centimetri di zeppe ciascuna e le magliette stile Britney allungate quanto bastava per evitare un richiamo in diretta (la mia adorata S., prof. di italiano, era un vero mastino).
Quelli di città si dividevano quasi perfettamente in due: quelli ancora con la faccia da pupetti, e quelli cui l’ormone aveva già mandato in malora l’ottanta per cento di cervello. Io, mi sa, stavo tra i primi (anche se la distinzione è sempre più netta per i maschi che, si sa, son creature meno complicate). Il mio cartellino con nome e cognome era illeggibile e coloratissimo. Seconda fila al centro, la geografia mi descriveva meglio di ogni presentazione verbale.
Tra quelli per cui l’adolescenza era un dramma ormai noto e quotidiano c’erano i miei futuri amici, che per tutto il primo anno sono state entità lontane e indispettite (L. mi odiava pure un po’. Quando smise, me ne innamorai perdutamente, e fu la rovina). Il mio amico L. aveva i capelli lunghi e scuri, possibilmente sulla faccia per nascondere i brufoli. La camicia azzurra a quadri verdi mi fa venire ancora nostalgia, se ci penso. Il mio amico A., già bello come il sole nonostante il momento poco propizio, si presentava con le ‘a’ del nome cerchiate, ché l’anarchia era prima di tutto (bei tempi) una toppa cucita sull’Eastpack.
Mi ricordo la prof di inglese, che entrò e fece un monologo in lingua lungo esattamente 55 minuti. Capivo circa l’80% di quello che diceva. Più tardi avrei afferrato che era un record (‘io da dietro vedevo la tua coda muoversi, facevi sì con la testa, ma capivi davvero??’).
Mi ricordo le tutors, quelle del quarto che ci presentarono la scuola per le nostre prime due ore, traumatizzandomi oltre ogni misura (in primis commentando favorevolmente il pacco del mio -futuro- professore di arte).
Mi ricordo la diffidenza con cui guardavo le giovani punk del lato destro. Sembravo invidiosa di loro (e forse un po’ lo ero) ma nonostante la pallosità avevo ragione con la mia attitudine avversa. Su tutta la linea.
Mi ricordo come facevo finta di essere scema per mimetizzarmi (durò fino alle prime tre prove di ingresso, poi smisi per evitare il linciaggio). Mi ricordo il cappuccino a ricreazione, i volti noti di quelli più grandi che non ti salutavano mai, S. a cui volevo così bene e che non vedo da cinque anni, M. che faceva tristezza ma sapeva benissimo tutti gli orari degli autobus.
Un inizio traumatico per dei begli anni. Però no, non ci tornerei mai.