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Cammino lungo il Reno, guardo l’acqua che corre velocissima e penso che quando me ne andrò di questo posto non mi mancherà nulla.
Forse in realtà il silenzio, il tempo che sembra fermo certe sere di domenica. Gli aironi che sorvolano l’acqua in primavera. Ecco, la primavera.

Forse il destino voleva che rimanessi qui per un anno pieno, un anno intero, per ascoltare ancora Charlie Haden su queste sponde e finalmente capire.

Cosa, non lo so bene.
La luce se ne sta andando e io non ho voglia di niente.
Un po’ fa paura, ma credo sia una bella sensazione a cui essere arrivata.
Capire, forse, che per desiderare a volte c’è bisogno di svuotare. E ritrovarsi.

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Il silenzio intorno

Il mare è il mio posto preferito

E mi riempio gli occhi di queste acque blu e verdi, e questo sole e questa sabbia chiara, e gli scogli levigati dal vento

Di quest’isola che fa innamorare 

Mi rimane il silenzio intorno
Il rumore delle onde leggere 
Le chiacchiere di sottofondo

Mi rimane un buco nero nello stomaco
Un po’ di nebbia nel cuore

La confusione di tanta gioia cancellata dal calendario
(Io qui a piangere, tu a Roma a vomitare, in una perfetta sintesi del trash)

Non è chiaro a che serva tutto questo
Non capisco se è solo uno sbuffo di vento o se sarà scritto così 
Che io sto senza di te e soprattutto tu stai senza di me
In una privazione preventiva che non comprendo ma mi sforzo di accettare

Mi rimane il silenzio intorno

Lo cerco, e mi riempio gli occhi di blu
Pensando a te, cercando di no
Cancellando domani dal calendario

Il silenzio intorno 
Finché si può 

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Mi persi

I fumatori hanno un motivo in più per guardare le stelle la sera, in questo giugno perfetto, in questa sera da maglioncino e prosecco sul ciglio della strada. Torno a casa e respiro il vento della sera sul balcone, il ponentino chissà, la direzione è giusta. E guardo il cielo e mi ascolto le canzoni di anni fa. E passa un aereo e quasi fa freddo, qui.

E mi perdo in quello che la gente dice
E mi perdo tra il lime e il pepe rosa
E respiro tra la condiscendenza e il mio silenzio di rimando
E mi chiedo se si può guarire da noi stessi
E ho nostalgia di un altrove più leggero
Ma anche voglia di starmene qui
Dove sono
Col venticello, e i sorrisi, e le luci della mia città.

…Ma se i sogni non li avessi già completamente spesi
In quello che sai

Così io ti prendo per mano e ti porto con me
Che a darsi un appuntamento
Speranza c’è

(Ma si lo qual era
il modo esatto
per riavere tutto
è solo che
mi persi)

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Ad un non amore

Di te amo l’onestà sconcertante
Le parole che filano via, attraverso le labbra, probabilmente più veloce di come prevedi, più di come converrebbe
Di te amo il gesticolare frenetico e un po’ infantile

E temo la tua distanza
Le tue priorità ferree e indiscutibili
L’appartenenza lontana (che non ho)

Ed è la prima sera che cammino in una strada nuova
E penso al mio quasiamico preferito, e a quel che direbbe se distinguesse queste parole
E penso che esser sempre uguali a sé stessi (va con l’accento, è un’eccezione) è una trappola
E ho paura di me

E insieme mi ritrovo in sensazioni troppo note per pensare che siano casuali
E se una sera mi ha protetto dal mondo un tempo avrei detto che andava bene già così
Ma non è vero e non si può negare
E non mi manca quello che potrebbe essere
Mi manca tutto il resto delle cose

Vuoi dormire con me stasera?
Disse, ma era già lontana.

Che fare?

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Le sette di mattina

È strano come la riaffermazione a volte passi per una serie di costrizioni che, mentre non ti fanno respirare, ti fanno intravedere i tratti di te che ti eri persa, che forse (nonostante le idealizzazioni a posteriori) erano scritti e formati anch’essi, insieme a chi sei, in un gomitolo di dovere e volere in cui poco si distingue, purtroppo.

Ma per ora gioiamo di qualche momento di pace ritrovata, nel mare magnum di emozioni che mi travolgono e rimangono lì a macerare, ho detto impulsiva? No, era una parola sbagliata.
Gioiamo perché ho tanti articoli tra le bozze del telefono e tutti iniziano e finiscono con un po’ di amaro in bocca, con il tempo che non c’è ora e il tempo che non c’è più, e invece adesso mi riprendo le sette di mattina, riesco ad alzarmi al primo suono della sveglia, sarà anche un po’ l’ansia ma a me che sono una diurna, allodola si diceva?, ma anche un po’ un ghiro, ecco, a me l’ora in cui il sole s’è già alzato e il cielo è ancora blu, mi incanta.

Mi riprendo i momenti, le somiglianze, la luce, le idee. Lontanissimi nel tempo, che pare un’altra vita. Forse lo è, in effetti.

E anche se uso male le virgole e gli aggettivi, che pare un Mollysmonologue sta cosa che ho scritto (lo so che non le ha, le virgole, quello lì, era una provocazione), sento che persino questi elenchi frenetici e urgenti sono parte di me.

Speriamo bene.

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And the things that keep me alive, keep me alone

Se mi chiedi cosa desidero adesso, più di tutto, è vederti arrivare alla mia porta con due biglietti in mano, un input che non è tutto farina del tuo sacco, ma nemmeno del mio.
Se mi chiedi cosa vuol dire passare del tempo insieme in modo non neutro, te lo dico, che è non fare finta che un pezzo piuttosto grande del mio cuore e del mio cervello abbiano una forma invariabilmente e dolorosamente simile ai tratti del tuo viso, alle tue scarpe, al tuo profilo. Che abbiano il profumo del corridoio di casa tua e siano gelidi al tatto come le lenzuola del tuo letto. Mai stata in una camera così fredda, io.

Se mi chiedi cosa desidero più di ogni cosa, non lo so se è che il mondo smetta di essere malato o se è di essere felice io. Meno male che a comando non succede nessuna delle due cose, neanche con i migliori superpoteri, così almeno non devo scegliere.

So solo che sono stanca di sentirmi alla deriva, stanca di essere smarrita e sbiadita, stanca di sentirmi dire che sono eccezionale senza valere una scelta, stanca di cercare di controllare tutto, stanca di sentirmi ordinare di essere positiva.

…ma non tutti hanno le carte in regola per farla funzionare.
Tu ci riuscirai.

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Aiuto, affogo.

Mi hanno detto che non devi nuotare quando hai i pensieri.
E dire che se sono arrabbiata funziona benissimo. Una bracciata dopo l’altra, mi si staccano di dosso le frustrazioni, si scioglie la tensione, dimentico l’ardore di litigi e malcontenti.

Ma se sei triste il marchingegno non gira più. L’acqua non alleggerisce, ti manca il respiro. Hai solo voglia di andare a fondo, o di far finta di farlo, per un attimo. Di appartenere per un minuto solo a quel mondo ovattato in cui non si sente nulla, se non quel senso di protezione primordiale.

Aria, bolle, aria.
[e quanto mi aveva fatto piangere, quel film]

Se avessi qualche anno di più, mi farei abbracciare da F.
Che è così pacato, e sereno, e solidale. Che medita, e sa mettere in fila le parole in modo così rassicurante da rendermi malinconica, e quasi nostalgica di familiarità mai provate.

Se avessi qualche anno di meno, riuscirei a guardare con leggerezza un altro F., che ha gli entusiasmi e la ruvidezza di un’altra epoca. Purtroppo. Ed ha una luce negli occhi che non si spiega con le parole.

E invece sto, nel mezzo, inavvicinabile. Non mi faccio abbracciare.
Non mi faccio consolare, anche se vorrei.

Mi viene da piangere ma devo lavorare.

Bisogna farsi forza (senti come suona bene?)
(cit.)
(…e grazie, di aver capito)

Sarà l’autunno.
Sarà l’autunno?

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Risacca

Me ne sto,
diceva qualcuno anni fa, per indicare quella condizione in cui ci si siede e si aspetta, ci si rifiuta di prendere l’iniziativa, si accentua dialetticamente la propria attitudine solitaria, non misantropa ma, sicuramente, poco portata a muovere verso gli altri.

Me ne sto, e sorrido dal mio angoletto di sabati sera a casa, vino rosso e buona cucina, riflessioni e aspirazioni ipoteticamente universali. Senza passare ai fatti.

Cerco di disintossicarmi dalla sbornia di adrenalina che, in un modo o nell’altro, ha popolato i miei ultimi diciotto mesi. Cerco di non intristirmi con l’autunno che arriva e di non farmi trascinare via con la lista di cose da fare che compilo la mattina, sulla scrivania. Scrivo un post-it mentale che mi ricordi che non bisogna sempre piacere a tutti. Che poi se ci penso, trascurando la mia natura fortemente drammatica ed autoanalitica, ho fatto tantissime cose, negli ultimi diciotto mesi. Non ci si può aspettare una vita di così grandi rivoluzioni al ritmo di tre mesi (o forse sì, ma si dovrebbe morire a 27, come dice Coez).

Me ne sto, cerco di godermi le cose belle e di immaginare la vita che verrà, come facevo a quindici anni, quando doveva ancora venire davvero, la vita.

Adesso c’è, la vita intorno, e nella risacca di questo autunno posso guardarmi intorno e collezionare eventi e piccole pillole di gioia, di quella costruita, di quella che non mi sento privilegiata a provare perché me la merito. Anche se, pensandoci, ogni gioia è un privilegio.

E tra le gioie, giorni di sole, facce incuriosite e barchette a pois.

“Mi piace vedere gente felice”.
Ecco.

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Nibali.

Che non si capisce perché in queste pagine, di elucubrazioni allo specchio, qualche idillio e qualche, più rara, riflessione sistemica, debba trovar spazio un titolo così.

Ma un po’ è nostalgia di un tempo che sembra lontanissimo. Un tempo di pomeriggi davanti ad esercizi di matematica complicata, per sottofondo la telecronaca e la sperimentazione, per me sempre nuova e travolgente, di come guardare lo sport con un tifoso trascini nell’arena anche te, semisconosciuta a questi saliscendi in bicicletta. Se non fosse per il mio nonno paterno, che i pomeriggi d’estate, da bambina, guardavo fissare il pirata sullo schermo, seduto a trenta centimetri dalla tivù.

E un po’ è metafora del tempo attuale, il titolo, quel nome, come le corse e la fatica e i traguardi che arrivano, dietro la curva, quando ormai ti eri dimenticata di aspettarli. Arrivano e mi trovano gioiosa, lo stomaco distrutto dagli antibiotici, la testa che non riesce a stare ferma su una cosa sola.

Mancano tre giorni alla mia estate.

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Silenzi, pieni.

Succede che mi perda, nei giorni, tra le righe.

Succede che le narrazioni si interrompano, fuori tempo, fuoriluogo.

Succede di leggere commenti di vicini del web, di quelli che ci sono da tanto che sembrano i vicini di casa, l’empatia diventa familiarità (o la familiarità diventa empatia?). Vicini che ci sono, da così tanto che ancora ti ricordi la volta che li hai intravisti a via Induno, una pancia promettente (loro), una Lancia verdina e accogliente (nostra), le vite così diverse, la loro e la tua, che sembra un altro mondo, da qui.

Allora, da uno spunto fuori, mi accorgo di esser lontana. Metto la bossanova di sottofondo e mi concedo il tempo di raccontarmi. Saudage, come diceva Fernando e mi sembrava insieme così bello e così scemo, quella notte.

Succedono insieme tante cose. Ho messo la mia firma su un pezzo di carta che delinea una casa come mia. Intermezzo bancario, velleità borghesi, certo che sì, nostro malgrado, ma una radice a Roma, una radice mia. Hanno detto, ho diciotto mesi per spostare la mia residenza. Niente più nordest, dunque, un altro cordone ombelicale reciso, e anche se è solo simbolico fa strano, strano.

Ho incartato pentole e libri e tazze e vestiti, ho pianto un po’, tutto ciò è compiuto, ebbene. Tutto ciò, misto ad arrabbiature che avrei voluto non fossero mie, ma ci sono. Aspetto dunque il giorno ics, in cui tutto (tutto) sarà trasportato di duecento metri, tra muri vicini, ma non troppo, che attendono il colore del mio nuovo amore (e non è una metafora). Il mio amore che colora, e poi parte e se ne va lontano, e io che gli voglio bene ma non lo amo, in realtà, sono un po’ triste e un po’ sollevata, come nelle grandi occasioni. Io sto.

Mi hanno prestato un frigo da campeggio, mi hanno detto che sono brava.

Sto. Felice e stanca, e interrogativa in egual misura.
Si gira una pagina importante e ancora non me ne rendo conto, mi sa.

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