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Lontano

Andare,
procedere.

Un corridoio con l’aria condizionata a contenere le nostre nostalgie,
un sole che scalda l’aria calda, in una spirale pericolosa e inevitabile.

Aiuti e gentilezze che travolgono ciò che mi aspetto, ciò che mi manca, ciò che non si può immaginare. Un caffè. Siediti qua che lì c’è il sole.

Tanta luce, e voglia di staccare la spina, e limiti e risposte binarie.

Cancellare vecchi copioni, ritrovarli nei file trash della propria (inconscia) penna USB. Prendere tram e attraversare la città, facendo foto alle pagine dei libri e all’aria. Ché Roma è così, fai una foto ed è subito Sorrentino. E trovarsi di fronte espressioni familiari, che vengono da un altro tempo, che però, per un secondo, sembra ieri.

E io ho questi modi multiformi di lasciare che le persone mi prendano il cuore, queste vicinanze che non so raccontare, questi amici profondissimi, questo orizzonte un po’ storto a cui non so immaginare di rinunciare. Ci sono loro e ci sono io, in questa estate asimmetrica, e bagno i piedi in un canaletto ghiacciato in questa Roma da Sorrentino, e mi sento lontanissima. Che è una cosa anche bella, poi.

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And the things that keep me alive, keep me alone

Se mi chiedi cosa desidero adesso, più di tutto, è vederti arrivare alla mia porta con due biglietti in mano, un input che non è tutto farina del tuo sacco, ma nemmeno del mio.
Se mi chiedi cosa vuol dire passare del tempo insieme in modo non neutro, te lo dico, che è non fare finta che un pezzo piuttosto grande del mio cuore e del mio cervello abbiano una forma invariabilmente e dolorosamente simile ai tratti del tuo viso, alle tue scarpe, al tuo profilo. Che abbiano il profumo del corridoio di casa tua e siano gelidi al tatto come le lenzuola del tuo letto. Mai stata in una camera così fredda, io.

Se mi chiedi cosa desidero più di ogni cosa, non lo so se è che il mondo smetta di essere malato o se è di essere felice io. Meno male che a comando non succede nessuna delle due cose, neanche con i migliori superpoteri, così almeno non devo scegliere.

So solo che sono stanca di sentirmi alla deriva, stanca di essere smarrita e sbiadita, stanca di sentirmi dire che sono eccezionale senza valere una scelta, stanca di cercare di controllare tutto, stanca di sentirmi ordinare di essere positiva.

…ma non tutti hanno le carte in regola per farla funzionare.
Tu ci riuscirai.

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Risacca

Me ne sto,
diceva qualcuno anni fa, per indicare quella condizione in cui ci si siede e si aspetta, ci si rifiuta di prendere l’iniziativa, si accentua dialetticamente la propria attitudine solitaria, non misantropa ma, sicuramente, poco portata a muovere verso gli altri.

Me ne sto, e sorrido dal mio angoletto di sabati sera a casa, vino rosso e buona cucina, riflessioni e aspirazioni ipoteticamente universali. Senza passare ai fatti.

Cerco di disintossicarmi dalla sbornia di adrenalina che, in un modo o nell’altro, ha popolato i miei ultimi diciotto mesi. Cerco di non intristirmi con l’autunno che arriva e di non farmi trascinare via con la lista di cose da fare che compilo la mattina, sulla scrivania. Scrivo un post-it mentale che mi ricordi che non bisogna sempre piacere a tutti. Che poi se ci penso, trascurando la mia natura fortemente drammatica ed autoanalitica, ho fatto tantissime cose, negli ultimi diciotto mesi. Non ci si può aspettare una vita di così grandi rivoluzioni al ritmo di tre mesi (o forse sì, ma si dovrebbe morire a 27, come dice Coez).

Me ne sto, cerco di godermi le cose belle e di immaginare la vita che verrà, come facevo a quindici anni, quando doveva ancora venire davvero, la vita.

Adesso c’è, la vita intorno, e nella risacca di questo autunno posso guardarmi intorno e collezionare eventi e piccole pillole di gioia, di quella costruita, di quella che non mi sento privilegiata a provare perché me la merito. Anche se, pensandoci, ogni gioia è un privilegio.

E tra le gioie, giorni di sole, facce incuriosite e barchette a pois.

“Mi piace vedere gente felice”.
Ecco.

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Average

Mi capita di chiedermi spesso (da quando ho scavallato il quartino, in effetti),

se con questo Spotify nelle orecchie, con questo sentirmi così indie quando passa i Foals,

con questo nuovo regime di sveglia presto e questo sistemare la cucina all’ora di colazione,

se con il lavoro e il lamentarsi del mio capo ma desiderare ardentemente la sua approvazione,

se con questo andare in piscina e farsi piacere il vicino di corsia per avere un incentivo divertente a farsi passare il mal di schiena

con il mutuo e la caldaia da cambiare,

non stia diventando un po’ nella media. Un po’ borghese ma, più che altro, più gravemente, un po’ normale. O sarà la saggezza della maturità che ti fa cogliere l’universalità di certe cose della vita? O sarà che a tutto ci si abitua, e tutto sembra normale, dopo un po’?

Forse dovrei innamorarmi. Con quello, magari, riuscirei a sentirmi l’unica sulla faccia della Terra a capire. Come quelli che escono in coppia per la terza volta, uguali a tutti, ma così meravigliosamente convinti di essere i più speciali.

Però pensandooci, finché dura, a me, questa normalità di progetti che non devono per forza essere globalmente rivoluzionari, basta che lo siano in piccolo, questa normalità che costruisce (come cantava Fabi, parlando d’altro) non è che dispiaccia poi tanto.

Mi sa che sto diventando vecchia.

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Silenzi, pieni.

Succede che mi perda, nei giorni, tra le righe.

Succede che le narrazioni si interrompano, fuori tempo, fuoriluogo.

Succede di leggere commenti di vicini del web, di quelli che ci sono da tanto che sembrano i vicini di casa, l’empatia diventa familiarità (o la familiarità diventa empatia?). Vicini che ci sono, da così tanto che ancora ti ricordi la volta che li hai intravisti a via Induno, una pancia promettente (loro), una Lancia verdina e accogliente (nostra), le vite così diverse, la loro e la tua, che sembra un altro mondo, da qui.

Allora, da uno spunto fuori, mi accorgo di esser lontana. Metto la bossanova di sottofondo e mi concedo il tempo di raccontarmi. Saudage, come diceva Fernando e mi sembrava insieme così bello e così scemo, quella notte.

Succedono insieme tante cose. Ho messo la mia firma su un pezzo di carta che delinea una casa come mia. Intermezzo bancario, velleità borghesi, certo che sì, nostro malgrado, ma una radice a Roma, una radice mia. Hanno detto, ho diciotto mesi per spostare la mia residenza. Niente più nordest, dunque, un altro cordone ombelicale reciso, e anche se è solo simbolico fa strano, strano.

Ho incartato pentole e libri e tazze e vestiti, ho pianto un po’, tutto ciò è compiuto, ebbene. Tutto ciò, misto ad arrabbiature che avrei voluto non fossero mie, ma ci sono. Aspetto dunque il giorno ics, in cui tutto (tutto) sarà trasportato di duecento metri, tra muri vicini, ma non troppo, che attendono il colore del mio nuovo amore (e non è una metafora). Il mio amore che colora, e poi parte e se ne va lontano, e io che gli voglio bene ma non lo amo, in realtà, sono un po’ triste e un po’ sollevata, come nelle grandi occasioni. Io sto.

Mi hanno prestato un frigo da campeggio, mi hanno detto che sono brava.

Sto. Felice e stanca, e interrogativa in egual misura.
Si gira una pagina importante e ancora non me ne rendo conto, mi sa.

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Tre giorni fa.

Ho tolto dalle posizioni del Finder le cartelle che si chiamavano ‘tesi-qualcosa’.
Sì, c’è voluto un po’ di tempo. Come a riordinare la mia stanza dal caos semestrale che l’aveva invasa (non ho finito, peraltro).

C’è chi è nella mia vita da poco ma è riuscito a farmi incazzare come non accadeva da tanto tempo. E questo chi  non si è ancora accorto che farmi incazzare con una certa durevolezza, a me, a cui dopo cinque minuti la luna storta passa, volente o nolente, non è cosa intelligente né lungimirante. Almeno avrò una valvola di sfogo.

Il mio mese di vacanza è stato un susseguirsi di malsanie e di sentirsi fuori luogo, visite a case in vendita e cercare di stare al passo – concedendosi deliberatamente (questa sì che è una novità) di non riuscirci.

E’ un momento di passaggio strano, la fuga dei cervelli (o dei cuori, in qualche caso) mi sta portando via le colonne portanti della vita, e io, che non son brava con le distanze né con la caparbietà, se riguarda le persone, ho molta paura di perdere pezzi senza saperli riconoscere né tantomeno (e forse questo è bene) rimpiazzare.

E così mi succede di parlare con le persone e di sentirmi su un altro emisfero rispetto a loro, sempre, ma gli emisferi dovrebbero esser solo due e mi sembra statisticamente improbabile che tutti gli altri si trovino (tutti insieme!) dall’altra parte. Quindi sostenuta dalla logica matematica inappellabile del discorso sono arrivata alla filosofica idea di un mondo fatto di infiniti emisferi.

E non vorrei star qui a teorizzare queste cialtronerie, io, vorrei una rete di persone che ti aggancia e non ti lascia scivolare via, io, e in parte ce l’ho pure, è che certe volte gli eventi ti sorprendono e non sei pronta e se anche le cose belle ci sono, tu le vedi poco.

E ti rifugi nell’unico luogo sicuro che è rimasto a parte il salotto di casa nel nordest, e l’unico luogo sicuro è paradossalmente quello che è stato causa del maggior male, in questo duemilatredici.
‘finirà pure, questo cazzo di duemilatredici’
‘eh’

E ti trovi in un abbraccio che sa di un emisfero simile, se non lo stesso, ma non può esser questa la sola ragione per continuare a stare in questo limbo, tenendoti un alibi in tasca per quando non riesci a buttarti, quando stai ai margini, e guardi da lontano senza fare nulla (come se servisse, un alibi).

‘a me non mi sembra proprio di avere venticinque anni’
‘perché?’
‘ho vissuto troppo poco, non posso avere già venticinque anni’

Non può essere un bacio a salvarci, magari una scelta, il coraggio di una decisione, magari quello sì, ma se le cose stanno così, se questo porto sicuro (e non sono solo io, a percepirlo come tale) non vale abbastanza, è ora di mettersi il cappotto nuovo. E andare fuori.

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Che gli scienziati siano belli non è opinione di molti

Mi è accaduto di giungere, già brilla, ad una riunione di amici di geografie passate, che festeggiavano una laurea (anzi, tre). Io non c’ero dentro, al giro, i celebrati li conosco solo da qualche mese, ma a tratti percepisco con uno di loro quell’intesa improbabile che ogni tanto scatta con qualche persona che mai diresti se la potrebbe intendere, con me.

Li ho osservati interagire, un gruppo di venti e più trasportato a San Lorenzo da lidi molto più piccoli, nordici, familiari. Li guardavo da fuori, pensavo che era bello, che ci fosse questo universo inatteso, tante persone che avevano preso un treno alle sei di mattina e si volevano vedere Roma, oltre a festeggiare i loro amici. Quelli che tutto va bene, come quando i miei amici son venuti a trovare me, dal nordest, ed era il primo anno che stavo qui, quando ancora baciavo tutti, per tenere radici un po’ ovunque.

E’ più di tutto alle radici che pensavo, all’angolo, mentre si brindava, si cenava, si scartavano i regali. Mentre mandavo messaggini improbabili e sbagliati (e ottenevo risposte prevedibili, e altrettanto sbagliate). Pensavo alle transizioni come quella che sta accadendo a me, che ho iniziato a esser pagata per fare quello che ho fatto nell’ultimo anno. Pensavo a me che chiamo agenti immobiliari per cambiare casa. Pensavo alle prospettive, a dove vivrò tra vent’anni, ad un amore che magari troverò, a un certo punto, e rimarrà, a qualche amore che ho perso, ai figli, alla fortuna che ho ad avere i genitori che ho, alle esposizioni est-ovest e ai divani fatti con i bancali verniciati, con le rotelle. A Leo che è un’ispirazione, e sorride, e mi dice da genitore ti posso dire (e improvvisamente mi fa realizzare che ho un’amica con un figlio), a V. che ha una storia da nove anni e di anni ne ha ventisei, ché ci sono ancora, quelle situazioni così, delle coppie longeve e belle, ce n’è una in ogni giro di amici, e gli altri li guardano e non sanno se essere felici, o strani, ma sicuramente non capiscono.

Ti penso. Stanno cambiando tante cose… e mi manchi un po’
Anche io ti penso spesso. Tante cose in meglio?
Direi di sì, ma c’è tanta stranezza e confusione. Comunque in meglio, sì.
E mi manchi un po’.

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Amor particolare.

Primavere autunnali si definiscono a partire da aggettivi con qualche pretesa di troppo.
Ne sono innamorata in un modo tutto particolare
mi dice B., condividendo riflessioni su skype condite di videochiamate saltellanti.

E io che ne so, che ormai mi sento come una vecchia saggia consigliera, dall’alto del mio eremo che consente una lettura distaccata degli eventi. Che ne so, che mi sento un maglione di quelli da casa, quelli morbidi ma di colori orribili, che li metti pure se hanno i buchi perché ti fanno compagnia.

Io che ne so, dell’amor particolare, mentre mi sembra che tutti e tutte caschino nella rete e si sentano gli unici al mondo, quando sono tanti, e io lo so perché li vedo, li guardo, per la strada, sull’autobus, sulle scale dell’università, sono tanti e sono tutti, meravigliosamente, uguali. La luce negli occhi, e i baci e la comprensione, più di tutto. Io che ne so, neanche mi ricordo che vuol dire, quell’abitudine di un corpo vicino al tuo, la comunicazione non verbale, l’intimità.

Sto, osservo, tengo tutti a distanza e mi sento goffa e onnipotente allo stesso tempo, ché se volessi tutto potrei, il problema è che non voglio.

Quello che voglio, in realtà, è prendere il tram e scendere alla fermata in quella piazza trafficata, camminare a testa bassa, non suonare il campanello con quel cognome elegante, ma entrare a caso e salire di corsa quattro piani di scale e sedermi fuori dalla porta, bianca, e aspettare. O andare a bere una birra in uno dei miei pub preferiti, quello dove una volta dicevo vado a rimorchiare, e nessuno mi credeva. E sedermi lì, e aspettare. Tanto lo so, che prima o poi arrivi.

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Post.

Ci casco tutte le volte.

Sei sotto pressione e pensi che dopo, dopo sì che sarà grandioso.

Feste su feste dal tramonto all’alba, danze e carezze, come cantava qualcuno. Carichi di aspettative il post, e poi non ce la fai. Passi un Halloween da sola a perder memoria di te, al tuo bar (e per fortuna è tuo, il bar, nel senso emotivo, e quindi è un po’ casa), con l’uomo con cui non vorresti stare che ti serve cocktail graziosi e silenziosamente ti osserva metterti in imbarazzo da sola, con grande classe, senza commentare. Ti sforzi di stare con gli amici anche se non ti va, ti sforzi per un’ennesima sera uguale a tante, solo che ti manca qualcosa, manca un filo, manca la connessione, i mesi di isolamento l’hanno recisa, e stai, e basta.

Le persone hanno i loro modi per tentare di starti vicino, e tu vorresti urlare che non sei una loro estensione, che sei tu e che hai i tuoi bisogni, e poi insieme ti chiedi se non sia, questo, quello che anche tu fai con gli altri, perché forse ha una componente di normalità continuare a considerare il mondo come un’estensione di sé, se si mette da parte l’ipocrisia per cui non lo si ammette.

Vorresti stare a letto a guardare serie tv, mettere in ordine la casa con una serie di schiocchi di dita come riuscivano a fare in Mary Poppins, ma forse serviva Londra, forse serviva George Banks, o Julie Andrews, forse bisognerebbe uscire tutti a ballare sui tetti senza aver paura di scivolare, forse servirebbe solo qualcuno che aggiusta le cose e poi se ne va, con eleganza, con un ombrellino chic. Forse servirebbe il coraggio di chiudere porte che pensi sia naturale tenere aperte, ma come si diceva qui, una volta, dalle porte aperte entrano gli spifferi, le correnti d’aria, che disordinano i fogli e ti fanno venire il raffreddore.

E lasciano un sacco di confusione. Un sacco di dubbi. Un po’ di gioia malcelata, probabilmente sbagliata, che affoga in un vuoto pneumatico che, anche se ci provi, proprio non riesci a riempire.

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