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Stai tranquilla

Non ho più parole (credo)
vivo in uno stato un po’ così
di inquietudine e di dubbi e di aprire le porte e far entrare il vento,
ma in senso brutto

Sbattono le finestre della mia testa e della mia anima e io
(ancora una volta)
non riesco a lasciare fuori il vento

Sono ferma
in trappola forse
in ansia di sicuro
in una parola, in Svizzera

Andiamo a Milano in gita
che chi l’avrebbe detto, poi
che Milano mi sarebbe sembrata così?
È bella Milano
col sole i grattacieli
con la gente che si sente al centro del mondo

E di sicuro non è vero
ma almeno il resto del mondo esiste, a Milano

Mio malgrado mi scopro dalla parte sbagliata delle cronache
di quelli che vogliono solo tornare a casa
nonostante tutto ciò che ne deriverà, senza dubbio

Voglio un’occasione per me
ma rivoglio la mia luce
rivoglio la mia casa
rivoglio la mia rete e la vita fino a tardi la sera

Mi preparo a combattere
con una stanchezza al via
che non mi aspettavo e non so

Qualcosa mi consuma

Scusa
Non riesco a stare fermo
Ma per favore
Non mi dire stai tranquillo
Che tranquillo non sono
Perché se cerco e non trovo
Io mi agito

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Average

Mi capita di chiedermi spesso (da quando ho scavallato il quartino, in effetti),

se con questo Spotify nelle orecchie, con questo sentirmi così indie quando passa i Foals,

con questo nuovo regime di sveglia presto e questo sistemare la cucina all’ora di colazione,

se con il lavoro e il lamentarsi del mio capo ma desiderare ardentemente la sua approvazione,

se con questo andare in piscina e farsi piacere il vicino di corsia per avere un incentivo divertente a farsi passare il mal di schiena

con il mutuo e la caldaia da cambiare,

non stia diventando un po’ nella media. Un po’ borghese ma, più che altro, più gravemente, un po’ normale. O sarà la saggezza della maturità che ti fa cogliere l’universalità di certe cose della vita? O sarà che a tutto ci si abitua, e tutto sembra normale, dopo un po’?

Forse dovrei innamorarmi. Con quello, magari, riuscirei a sentirmi l’unica sulla faccia della Terra a capire. Come quelli che escono in coppia per la terza volta, uguali a tutti, ma così meravigliosamente convinti di essere i più speciali.

Però pensandooci, finché dura, a me, questa normalità di progetti che non devono per forza essere globalmente rivoluzionari, basta che lo siano in piccolo, questa normalità che costruisce (come cantava Fabi, parlando d’altro) non è che dispiaccia poi tanto.

Mi sa che sto diventando vecchia.

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Silenzi, pieni.

Succede che mi perda, nei giorni, tra le righe.

Succede che le narrazioni si interrompano, fuori tempo, fuoriluogo.

Succede di leggere commenti di vicini del web, di quelli che ci sono da tanto che sembrano i vicini di casa, l’empatia diventa familiarità (o la familiarità diventa empatia?). Vicini che ci sono, da così tanto che ancora ti ricordi la volta che li hai intravisti a via Induno, una pancia promettente (loro), una Lancia verdina e accogliente (nostra), le vite così diverse, la loro e la tua, che sembra un altro mondo, da qui.

Allora, da uno spunto fuori, mi accorgo di esser lontana. Metto la bossanova di sottofondo e mi concedo il tempo di raccontarmi. Saudage, come diceva Fernando e mi sembrava insieme così bello e così scemo, quella notte.

Succedono insieme tante cose. Ho messo la mia firma su un pezzo di carta che delinea una casa come mia. Intermezzo bancario, velleità borghesi, certo che sì, nostro malgrado, ma una radice a Roma, una radice mia. Hanno detto, ho diciotto mesi per spostare la mia residenza. Niente più nordest, dunque, un altro cordone ombelicale reciso, e anche se è solo simbolico fa strano, strano.

Ho incartato pentole e libri e tazze e vestiti, ho pianto un po’, tutto ciò è compiuto, ebbene. Tutto ciò, misto ad arrabbiature che avrei voluto non fossero mie, ma ci sono. Aspetto dunque il giorno ics, in cui tutto (tutto) sarà trasportato di duecento metri, tra muri vicini, ma non troppo, che attendono il colore del mio nuovo amore (e non è una metafora). Il mio amore che colora, e poi parte e se ne va lontano, e io che gli voglio bene ma non lo amo, in realtà, sono un po’ triste e un po’ sollevata, come nelle grandi occasioni. Io sto.

Mi hanno prestato un frigo da campeggio, mi hanno detto che sono brava.

Sto. Felice e stanca, e interrogativa in egual misura.
Si gira una pagina importante e ancora non me ne rendo conto, mi sa.

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Keep on moving

Comincio a inscatolare, esorcizzando il passato, rimuovendo partenze attese, nella gioia della libertà collettiva, l’unica sensata, concessa dal vivere e lasciar vivere.

Leningrado all’orizzonte, e non solo all’orizzonte. Intorno, sopra, sotto, davanti. Avvolge, la metafora giusta, promette momenti felici e modi di stare concretamente, meravigliosamente libertari.

Con N., la metafora giusta, arriva anche la pacificazione (finale?) con il mio modo di stare al mondo, che altri e altre apprezzano da tempo più di me. Non si può dire che io sia stata ferma, in questi anni, ribollendo ripensamenti nati da strappi antichi. Ma il senso dei percorsi, anche quelli compiuti in prima persona, è difficile da esplicitare, mettendo una parola dietro l’altra. A volte solo un osservatore esterno può regalare il punto di vista giusto.

Inscatolo e tossisco la polvere dei quattro anni passati qui. Questo è il posto che, più di tutti, ho chiamato casa. Ma ora mio fratello e mia sorella sono lontani, ed è giusto sperimentare altri modi, altre vie.

E mentre scrivo libri, scarpe, bricolage e altro col pennarello rosso, e amici berlinesi dicono su skype “mi sembri positiva”, sono insieme curiosa, esaltata e serena.

E’ il momento di andare avanti.

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Via dei Matti, numero zero.

C’era una casa molto carina
Senza soffitto, senza cucina,
Non si poteva entrarci dentro
Perché non c’era il pavimento
Non si poteva andare a letto
In quella casa non c’era il tetto
Non si poteva fare pipì
Perché non c’era il vasino lì
Ma era bella bella davvero
In Via dei Matti numero zero.

Cibo vacanze e riposo.
E rovistare tra le tazzine e i bicchierini da liquore bordati d’oro, rendersi conto di aver tra le mani oggetti che hanno tre volte la mia età, assaporare con l’animo del “lo sapevo, io”, finalmente, i benefici della vena da accumulatore seriale ereditata senza scampo dalla parte materna dell’albero genealogico.
Combattere il sentirsi privilegiata e anche vagamente fuoriluogo, come non fosse vero, come non fossi adatta, davanti a preventivi per una cucina low-profile, a progettare l’arredamento di una casa mia.

I dubbi mi assalgono e si traducono in mal di stomaco e senso di straniamento, come se pochi giorni in famiglia avessero passato una patina nebbiosa sulla mia vita vera. Nebbia leggera, alimentata rifiutando telefonate amiche e procedendo col solito, primaverile, check-up medico. Patina squarciata di vero dalle telefonate del mio capo.

Il lato B della vita è bello e strano insieme, da qui. Ci sono progetti a lungo termine che cozzano con la precarietà della mia vita reale, ci sono amori leggeri, però presenti e solidali. Ci sono aperitivi sotto la Basilica meravigliandosi del caso, che ti fa ri-incontrare bei compagni di qualche giorno, qualche notte o qualche anno. Ci sono immaginari spostati, c’è camminare per strade che sono state mie per vent’anni e non riconoscere più i negozi, le facce, le parole.

Ci sono anche gli interrogativi sul dopo.
E le convinzioni che miracolosamente sembrano più forti, altrove.

Ci sono i treni e i computer, e le liste di cose che compulsivamente compilo, sperando che gli imprevisti se ne stiano silenti per un po’.

C’è anche tanta luce.

 

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I bassisti che cantano

I bassisti che cantano
sono perloppiù poetici
i chitarristi che cantano
sono perloppiù egomaniaci.

E su un prato, con la birra, le confidenze di troppo, sono stata felice.
C’era il sole, c’era il mio fratello dell’anima (“ricordati che qualsiasi cosa succeda resti il mio fratellino”), c’erano discorsi matti ma non troppo.

C’era scritto

è indispensabile essere felici.

E ho pensato alle false pretese
e che forse sono un po’ disobbediente
e ho abbracciato persone che non vedevo da mesi, mesi interi,

ché questa città è così piccola e così grande insieme,
e ha gli aprili più belli.

E ho condiviso visioni internazionali
e c’erano anche loro.

E per un attimo, tra le facce, nel buio, è stata
pura gioia.

Perciò io maledico il modo in cui sono fatto
Il mio modo di morire sano e salvo dove m’attacco
Il mio modo vigliacco di restare sperando che ci sia
Quello che non c’è

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…the times they are a-changing

Questa primavera porta aria nuova, tante cose cambiano senza fare rumore.

Aria nuova, e una casa nuova. Una casa mia.

Una casa nuova, altra da quella che ho abitato per tanti anni e per tante cose accadute, tante, tante che ormai queste mura, le pareti gialle con le cose appese, sono quasi slegate dagli eventi che ci sono successi dentro, dalle persone che ci si sono appoggiate, dalle urla e dalle parole e dai suoni che hanno contenuto (quasi sempre), custodendoli dall’esterno nella parvenza di riservatezza che può essere concessa anche a chi vive in una casa di cinque persone.

Una casa nuova, anche perché questa è meno casa da quando V., coinquilina dell’anima, è partita per altri lidi, per seguire un amore che se n’era già andato, portandosi i mici e una macchina carica di tutta la sua vita. E’ meno casa da quando non c’è lei, che tanto mi faceva incazzare ma mi comprava le medicine quando stavo male. E’ meno casa con le sue telefonate tristi, ma che lasciano trasparire, finalmente, il bisogno di riscatto che ho sempre sperato di sentire nella sua voce.

Questa è meno casa da quando M., fratello folle e fisico inadempiente, si è trasferito giù al nord. Meno casa da quando non ci ammorba di arance e gin lemon nei bottiglioni di plastica, sostanze (poco) psicotrope assunte da adulto e molestia alcolica. Mi manca, quanto mi manca.

Questa non è più casa da quando non si progettano cene con gli amici comuni perché amici comuni, ormai, con chi qui ci vive ora, ce ne sono di meno. Ma forse sono ingiusta, è ancora casa, solo che non sembra bella come prima ora che la famiglia è lontana. E forse è un segno, giro di vite, è ora di riconoscere il cambiamento.

Aria nuova è risentire A. dopo tanto tempo e dirgli, un giorno ci vedremo, e rideremo insieme, ma adesso no. E’ riconoscere le distanze, è sceglierle, è smettere di essere arrabbiati e cominciare a costruire nuove strade. E’ chiamare le cose con il loro nome, a volte è forzarsi di fare un passo in più di ciò che dice l’istinto, sapendo che il mio istinto è così legato alla razionalità che a volte non si capisce quale dei due sia, a parlare, e a dirti vacci piano.

Così, aria nuova è giocare con gli appuntamenti al buio per nascondere il fatto che c’è una persona nuova che si è ritagliata un posto nei miei pensieri, prendendo in giro le mie ansie e promettendo partenze estive per viaggi lunghissimi, sola andata. Questa persona è magnificamente positiva, e lontanissima da come pensavo che fosse. E’ un sorriso che non mi aspettavo, anche se a termine (o forse, proprio per quello).

Aria nuova è pensare alle prospettive possibili, è immaginarmi nella mia camera nuova a settanta metri da qui, è avere paura degli scatoloni e degli esami, è cercare risposte e trovarle anche, un po’.

Aria nuova è il primo addio al nubilato della mia vita (e chissà se ci saranno gli spogliarellisti, chissà). E progettare vestiti e scarpe e pomeriggi, e chiedersi se mi commuoverò, alla fine.

…and you better start swimming
or you’ll sink like a stone

‘cause the times, they are a-changin’

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Blind date

Primavera è vedere una faccia che non ti aspetti tra la folla, sentire brividi che non ti aspetti, chiamare un nome a voce alta camminando su un prato al sole. Primavera è provare questa sensazione di frivolezza e un po’, proprio, di idiozia, quando ti accorgi che, quando una persona è presente, ti sembra meno variopinta, interessante, attraente e caleidoscopica di quando si volta e, camminando nel sole, si allontana da te.

Che fai, mi stai pedinando?

Primavera è scrivere messaggini a persone che non sai bene chi sono, con cui l’amica (la-spalla-migliore) ti ha organizzato un appuntamento al buio, con tanto di numero mandato via sms senza nome associato, con il commento ‘goditelo perché queste cose succedono raramente nella vita’.

Primavera è i progetti che maturano, e sentirsi soverchiati e anche un po’ soddisfatti, anche se niente è (ancora) andato in porto, ma finalmente ci sono tante cose diverse, nei giorni, e c’è spazio per aggiungerne altre. Perché a me ci vogliono nove mesi per guarire dalle cose, e nove mesi stanno per scadere. Tic, tac.

Primavera è sentire vuoti, a tratti, ma meno di prima.

Va bene così.

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Noi

Ci siamo noi che ridiamo del nostro alcool e sminuiamo i nostri successi, ipod sui mezzi e sguardo nel vuoto, nei pensieri persi. Muso duro e barèta fracà, si diceva dalle mie parti, e forse è stato uno stato emotivo generazionale anche in altri tempi, questo.

Ci siamo noi che leggiamo la normalità in scelte e prese di posizioni in bilico, abituati al disagio, lieve o profondo, del momento storico o del luogo geografico. E io seduta, in un inusuale silenzio, ascolto, osservo e mi bevo, durante i confronti, tutto quello che è diventato quasi familiare, sempre attraverso la pelle degli altri (con tanta empatia, però, si intenda).

Ci siamo noi che “siamo troppo quadrate”, noi così uguali sulla carta e così diverse negli esiti, L. che mi fa così arrabbiare certe volte, ma è la mia persona, e l’altra mia metà, in qualche modo.

Ci siamo noi che ci avvolgiamo nel cinismo come in una sciarpa di lana un giorno d’inverno, e se non guardi bene sembriamo frivoli e superficiali. Ma se pungi nei punti giusti è facile smentire la prima impressione.

Noi che riempiamo i giorni ma viviamo vite in togliere, alla ricerca della facilità che pensiamo di avere, a priori, ma che ci è stata negata ab initio, o almeno così sembra.

Ci siamo noi, fragili sotto un ombrello rubato al bar, occhi rossi di cloro o di qualche smarrimento di troppo, ché non saran tragedie ma non son nemmeno rose, soprattutto per qualcuno, di noi.

Ci sono io che ad alcuni di questi noi appartengo davvero, ad altri solo per empatia. Ma corro e faccio tante cose e vedo tanta gente e ci provo forte, a non perdermi. E abbraccerei forte proprio tutti, questi noi.

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Invul nera bile

Che sarà di noi tra qualche anno, quando le strade aperte e possibili saranno meno, quando si sarà affievolito l’entusiasmo o quella lucina chiamata speranza? Forse, penso, al calare dell’adrenalina e della fretta prenderemo tutti un bel respiro, e ci accorgeremo che quel che abbiamo scelto va bene, che di futuri possibili e vicini ce n’erano tanti e non è solo uno, quello in cui si poteva essere felici.

E intanto passiamo serate insieme per salutarci, ora che quel grande limbo di gioia, curiosità e stress che è l’università sembra essere finito, tutto ad un tratto, per tutti.

E chissà se “poi”, poi, sarà davvero peggio, o davvero meglio, forse è solo un succedersi di cose di cui uno ha paura, na cifra, ma a che serve interrogarsi troppo?

Una persona saggia (stringigli la mano, mi ha detto il mentore dai ricci grigi) una volta mi ha detto di non vivere ogni momento come se dovesse modificare ineluttabilmente il corso della mia vita. E io impaziente ho detto sì sì senza pensarci troppo, e invece aveva ragione lui. Che riesce ad essere matto e saggio nella stessa misura, come nella più nobile tradizione della follia.

Quindi passiamo serate a bere vino da bicchieri di plastica, a farci offrire la cena da visi amici (che per dire amiche proprio forse ci vuole un altro po’), ad osservare il multiforme e meravigliosamente eterogeneo groviglio di persone, affetti e memorie condivise che ci circonda, e ad essere felici per cinque minuti, un’ora o una sera. E il resto verrà, quando sarà il momento, e sarà peggio del resto dei nostri genitori, e forse sarà meno di quello che ci avevano promesso, ma in qualche modo sarà nostro, se non altro.

Invul
Nera
Bile

[p.s. Il fatto che la critica sociopolitica, sottesa e banalmente implicata da questo scritto, non sia esplicitata è da intendersi come scelta puramente stilistica. E come il titolo lascia intendere, non è che non ci sia, nella testa di chi scrive].

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