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The Brooklyn way

Ventun gradi 
Ventun grammi (non era quello, il peso dell’anima?) 

Il sole fuori e anche un po’ dentro

Fiori rosa, un anno di più. E nello stesso giorno un bel corteo, così forte e identificativo. Una telefonata buffa, una cena carina. Un brindisi, un regalo (su tutti). 

La paura del futuro soffiata via piano, lievemente, sospinta un poco più in là. 
Andate e ritorni in giornata, proprio io che odio i viaggi. Impressioni negative e feedback che le smentiscono. 

Forse ce la faccio
Forse sì, eh

Forse ce la facciamo 

Se non altro, ci proviamo
Spread love, it’s the Brooklyn way.



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But the fighter still remains

Confusa e felice cantava qualcuna
E i cali di pressione in fatiscenti uffici pubblici ti fan sentire un po’ così
“Oddio signorì, ma che è incinta?”

Sole invernale
Tutto è colorato di questa luce magica
E noi fermi e in movimento sempre
E noi e gli occhi intelligenti
E non mi farò mai più le storie con quelli più giovani di me
Ma ogni tanto è divertente sovvertire

Crederò a qualcuno prima o poi
Sperando di cascare in piedi

Intanto non so se mi restauro o mi consumo
Ma non è vero sempre?

…still a man hears what he wants to hear and disregard the rest.

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Di molteplici vie

La verità è che la frenesia mi inebria, e anche se critichiamo i ritmi ossessivi, iperproduttivi e disumani del contesto metropolitano, rimango piacevolmente intrappolata tra le maglie di troppi vissuti, narrati, percorsi, futuri ed idee.

E cerco di vederli, identificarli, viverli. Tra una corsa per l’autobus e una centrifuga di fragola melone, ad un orario in cui, di solito, sono al chiuso, a tentare la produzione scientifica, cerco di viverli.

E cerco di assecondarmi, un po’, di non rimuovere e di non imbrigliarmi. Faticosa è la via per la libertà, anche per la più piccola conquista di spazi diversi da quelli che ci sono assegnati, che ci siamo assegnati. È fatta di strappi, di sole e temporali, di smarrimenti e cambi di direzione. Faticosa quando mi appiccico alla finta pelle della poltrona marrone e mangio ciliegie e cerco di deviare, ma colgo il nocciolo (eh, sì).

Di molteplici vie la riaffermazione di sé.
Molteplici, colorate, leggere.

Come to the dark side
We have cookies

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Cose che cambiano e cose che no (capitolo secondo)

Le cose che cambiano è non conoscere gli esiti, volersi togliere di torno questo bozzolo di perfezione fiammiferaia. Le cose che cambiano è mettersi al primo posto. Le cose che cambiano è far cadere muri di età minori e di scelte di vita, e non volersi adattare a dimensioni minoritarie per il nobile atto di lasciar liberi (gli altri).

Le cose che no, è la mia decisione e il fegato iperrazionale. Le cose che no saranno i luoghi e i discorsi. O forse cambieranno anche quelli, e io non lo so. Le cose che no è riordinare la mia camera, è il mal di stomaco e il cercare di non pensare, indovinando insieme.

“Ci prendiamo una birra una sera di queste?”
“Si… volentieri”
“…”
“…”
“Questo silenzio fa ridere”
“No è che… cercavo di capire se era un avance”

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In un film

Ogni tanto penso che sarebbe bello filmarci.
Ognuno nel suo pezzo di vita, con la colonna sonora appropriata.
Saremmo belli così, con i tigli che cominciano a fiorire, of the night dei Bastille che ci ricorda le nostre infanzie e preadolescenze di profumi Malizia e come te nessuno mai.
Ognuno ad inseguire le proprie visioni del mondo, ad inserirsi nella rete di connessioni dell’inconscio, senza accorgersi di starci stretti, almeno un po’.

G. ha la sua primavera e mi somiglia così tanto che mi fa quasi male agli occhi starla a guardare, sorridendo, da qui.

G. mi ama, disperatamente, da anni, e insieme camminiamo sul ghiaccio sottile dei non detti, che scricchiola così tanto. Sono stata in quella sua casa col giardino, al centro, piena di luci soffuse e cose belle e legno e fiori, anni fa. E pensavo a come è strano avvicinarsi così tanto e non incontrarsi mai. Lo pensavo allora, lo penso ora.

S. è il mio parafulmine, il mio spiraglio tra le nuvole, la mia spalla. È la mia parte costruttiva, e per questo un pezzo di me lo amerà sempre. Anche perché non credo che molti abbiano accesso a questa parte di lui. E penso a come è strano avvicinarsi così tanto e non incontrarsi mai.

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Luce


It was my greatest thrill
But we just stood still
You let me hold your hand ‘til I had my fill

Even countin’ sheep
Don’t help me sleep
I just toss and turn right there beside you

So if someone could help me now, they’d help you too.

They’d help you to
See you through
All the hard things we’ve all gotta do
‘Cause this life is long
And so you wouldn’t be wrong

Bein’ free, leavin’ me on my own

And I held my own
Still I rattled your bones
I said some awful things and I take them back

If we would try again
Just remember when
Before we were lovers, I swear we were friends

So if someone could see me now let them see you

Let them see you
See you through
All the hard things we’ve all gotta do
‘Cause this life is long
So you wouldn’t be wrong

Bein’ free here with me on my own

Esterno, pianura.
Con quella luce piatta, lieve.
La mia pianura.
Che sempre (de)scrivo. Che sempre osservo appassionatamente.
E sempre mi chiedo quanto lontano riuscirò ad andare, da qui.

Le mie lacrime di affermazione.
L’attesa di qualcosa di buono, finalmente, dopo mesi di paura agghiacciante, dopo mesi freddi, freddi dentro, faticosi. La voglia di lasciarsi guardare dentro.

[ L’attesa delle cose belle è più bella delle cose belle, poi.
Non ricordate quanto erano buoni quei cioccolatini dell’avvento? ]

Riconoscersi nella propria strada, dopo tanto tempo. Dopo quello che sembra tantissimo, tempo.

Lost in the light.

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Radici

Mi allontano seduta sul treno che procede nel verso giusto. Guardo il cielo, mi riempio gli occhi della luce di aprile.

Sorrido alle finestre che conosco e a quelle che conoscevo. Ho sentito alla radio stamattina che l’esercizio di sorridere mette gioia di per sé. E io che l’avevo sempre saputo, così me lo sono ricordato.

Lo so anche quando un aperitivo mi fa piangere lacrime di sfinimento, quando dico che vorrei un amore e una scelta e nei miei orizzonti, invece, c’è calma piatta, e deserti spaziosi e scoraggianti.

Lo so anche quando ripercorro (mancate) ribellioni adolescenziali, quando mi siedo sulla poltrona di finta pelle e dichiaro “oggi non voglio fare fatica” prima di tuffarmi a capofitto nella rielaborazione della vita e dei vissuti.

Se ti eserciti a sorridere poi sei più felice davvero.

Mi mancano amiche che sono un po’ pezzi di me, loro, che stanno trovando il loro altrove, mi mancano come se mi avessero tagliato un braccio, poi ti abitui ma ogni tanto l’evidenza del vuoto ti scuote. Quando ritornano, poi.

Ma sto seduta su questo treno e guardo questa periferia che ho visto centinaia di volte ormai, HotelLaGiocca, Sky, la Salaria, Settebagni che quando ci sei, sei a Roma, ormai. E rivedo e posso toccare le mie radici in questa città in cui, più avanti in questa partita, avrò vissuto almeno dieci anni della mia vita.

E penso che la primavera potrà quello che il cervello non ha potuto, perché non sapeva. Aspettando un po’ di imponderabile.

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Cammini da romana [@mars]

Ci si son messi gli agenti atmosferici, notti in bianco per le consegne, il famoso “traffico de roma”, il taxi condiviso, la nausea (pure quella, condivisa) e un telefono scarico in una città sconosciuta. Ci hanno provato gli eventi, a mettersi in mezzo, eppure sono riuscita a partire lo stesso. A guardare l’Elba dall’alto, a spiccicare qualcosa in francese, a parlare di politica e di femminismi, a festeggiare degnamente i trenta di V., coinquilina dell’anima, che non se li sente e non li dimostra.

Ed è stata una città nuova, e magnifica.
Ed è stata la paura dei ripensamenti sulle mie scelte, spazzata via da quel senso di appartenenza che mi lega a questa città, riconosciuto dopo tanto tempo, atterrando a Ciampino.

La stanchezza fisica si mischia con la nostalgia, l’amore incondizionato passa per baci artefatti, torno mezza malata ed è di nuovo affannarsi di scadenze e interfacciarsi con filosofie intrinsecamente errate (ma dominanti, perloppiù). E dunque cammino se non corro, spero che passerà indenne questo maggio frenetico, ché come dice qualcuno (sarà il dna) noi diamo il meglio sotto pressione.

Russian roulette is not the same without a gun.

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Feste comandate

Fermi tutti, in un tram che non può passare perché c’è una macchina parcheggiata sui binari, in cento ad aspettare un distratto o disattento o merdoso guidatore, metafora del Paese, forse del Mondo di oggi (e poi mi chiedono perché non mi piace Renzi, me lo chiedono, sul serio). Metafora della deriva, direbbero voci vicine (sempre più, vicine).

Bambini ridono a squarciagola, nel tram di prima, erano dov’ero anch’io, lo vedo dai timbri sui polsi, parte della folla alcolica, quasi-nota e periferica, che festeggia come da tradizione (questa folla che ha bisogno di riconoscersi, direbbero – a ragione – voci vicine, identificandolo senza appello come una necessità adolescenziale).

Faccio telefonate sperando nell’assenza di risposte che, in effetti, si palesa. Cerco il simbolo, cerco l’astrazione.

Perché le feste comandate, quelle vere, sono occasione di bilanci, giri di boa indotti, un po’ allegri un po’ forzati, un modo per fare i conti con le strade percorse e quelle aperte davanti.

Così ci manchiamo nella folla quando lo scorso anno ci incontrammo mentre speravo di no, così sentivo nominare presunti amori senza saperli frenare, così oggi mi misuro con saggezze condivise e con qualche blocco psicologico, oltre che con un’influenza incombente. Ma i blocchi non fanno paura, i maschi poi sono buffi quando stanno sulla difensiva, specie quando non vorrebbero.

Così, mentre cammino verso casa, sola e con un grado sufficiente di lucidità, mi domando, dove sei? E mi rispondo, sono qui. In una città che ormai mi appartiene, di cui ho interiorizzato le dinamiche più di ogni altro luogo al mondo. Sono qui, in una casa che sembra l’appartamento spagnolo, da cui mio fratello e mia sorella hanno preso il volo negli ultimi nove mesi. Sono qui, a condividere slanci emotivi con un uomo che non li riconosce tali, ma che è un negativo di me, e silenziosamente combacia così bene, e dice mi fai sentire libero senza appartenere e senza farmi appartenere, lasciandomi in bocca il sapore di un traguardo, seppur a tempo determinato. Sono qui, a fare progetti materiali a lungo termine nonostante la mia vita non preveda altro che il futuro prossimo. A farli qui, quei progetti a lungo termine. A pensare che mi piacciono, quei progetti materiali, e che sono fortunata. Sono qui e chi l’avrebbe detto, questo giro di boa mi rende (di nuovo) felice.

[Sweet home prenestina
Where skies are so blue].,

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Via dei Matti, numero zero.

C’era una casa molto carina
Senza soffitto, senza cucina,
Non si poteva entrarci dentro
Perché non c’era il pavimento
Non si poteva andare a letto
In quella casa non c’era il tetto
Non si poteva fare pipì
Perché non c’era il vasino lì
Ma era bella bella davvero
In Via dei Matti numero zero.

Cibo vacanze e riposo.
E rovistare tra le tazzine e i bicchierini da liquore bordati d’oro, rendersi conto di aver tra le mani oggetti che hanno tre volte la mia età, assaporare con l’animo del “lo sapevo, io”, finalmente, i benefici della vena da accumulatore seriale ereditata senza scampo dalla parte materna dell’albero genealogico.
Combattere il sentirsi privilegiata e anche vagamente fuoriluogo, come non fosse vero, come non fossi adatta, davanti a preventivi per una cucina low-profile, a progettare l’arredamento di una casa mia.

I dubbi mi assalgono e si traducono in mal di stomaco e senso di straniamento, come se pochi giorni in famiglia avessero passato una patina nebbiosa sulla mia vita vera. Nebbia leggera, alimentata rifiutando telefonate amiche e procedendo col solito, primaverile, check-up medico. Patina squarciata di vero dalle telefonate del mio capo.

Il lato B della vita è bello e strano insieme, da qui. Ci sono progetti a lungo termine che cozzano con la precarietà della mia vita reale, ci sono amori leggeri, però presenti e solidali. Ci sono aperitivi sotto la Basilica meravigliandosi del caso, che ti fa ri-incontrare bei compagni di qualche giorno, qualche notte o qualche anno. Ci sono immaginari spostati, c’è camminare per strade che sono state mie per vent’anni e non riconoscere più i negozi, le facce, le parole.

Ci sono anche gli interrogativi sul dopo.
E le convinzioni che miracolosamente sembrano più forti, altrove.

Ci sono i treni e i computer, e le liste di cose che compulsivamente compilo, sperando che gli imprevisti se ne stiano silenti per un po’.

C’è anche tanta luce.

 

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