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Coraggio (e occhi bendati)

La verità è che certe decisioni non si possono prendere senza strappi. Soprattutto se perturbano una quotidianità che mi somiglia tanto, forse più che mai. Saranno i trenta dietro l’angolo o i traguardi che stanno sopraggiungendo senza che li abbia metabolizzati completamente. 

Sarà che questo nostro è un grande amore. Non di quelli nascosti o idealizzati, un amore di sveglie la mattina quando hai sonno, disordine, lavatrici rotte, stanchezza e qualche ansia di sottofondo. Ma anche di successi condivisi e piani da non pronunciare mai (neanche sotto tortura): uno vero, in effetti. Un amore che mi protegge e mi riscalda, comunque. 

Quella dei treni che passano una volta sola è senza dubbio una visione retorica della vita, ma ogni tanto capitano delle opportunità da cogliere. E dunque si parte. Anche se per poco (quanto è poco?), si cerca una nuova casa, si parla una lingua che avevo quasi dimenticato, si guardano nuove cartine, ci si preoccupa oltre la soglia di guardia (io sono fatta così). 

Non andrà tutto bene, ma alla fine andrà bene. 

Finalmente, ho fiducia. 

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A Trieste non si corre

Ma si incontrano tante persone, e si cammina un sacco. Esistono, viene da ricordare, città in cui tutti i luoghi sono sufficientemente vicini da prevedere almeno la possibilità di andarci a piedi, dove devi.

È stata una bella sensazione pensare che l’amerei, Trieste, ma sarebbe una passione breve, fugace, slegata dalle fibre del mio essere.

Cerco le città, mi ci perdo, mi imprimo nella memoria la luce, gli odori, l’orientamento delle strade. E più di tutto, come mi fanno sentire. Con le città lo si può fare più che con le persone, in effetti. Loro non reagiscono, e puoi immaginarci quello che vuoi.

Ho camminato, quindi, e preso un autobus che saliva sui colli per andare in una di quelle mete di pellegrinaggio scientifico che si vedono sui giornali. Così affascinanti che le immagino, nel mio agnosticismo radicale, come vere e proprie cattedrali, maestose e familiari ad un tempo, per i frequentatori usuali.

Sono stata preoccupata, ho imparato cose nuove, ho dormito abbracciata ad uno dei miei fratelli che adesso è lontano, ma resta vicino. E infatti chi ci ha osservato ha detto che ho cambiato faccia, quando l’ho visto.

Ritrovare la familiarità è anche recuperare vecchi pezzi di noi che abbiamo dimenticato su una mensola o perso per la strada. E la sensazione che gli smarrimenti siano reversibili è impagabile.

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Che gli scienziati siano belli non è opinione di molti

Mi è accaduto di giungere, già brilla, ad una riunione di amici di geografie passate, che festeggiavano una laurea (anzi, tre). Io non c’ero dentro, al giro, i celebrati li conosco solo da qualche mese, ma a tratti percepisco con uno di loro quell’intesa improbabile che ogni tanto scatta con qualche persona che mai diresti se la potrebbe intendere, con me.

Li ho osservati interagire, un gruppo di venti e più trasportato a San Lorenzo da lidi molto più piccoli, nordici, familiari. Li guardavo da fuori, pensavo che era bello, che ci fosse questo universo inatteso, tante persone che avevano preso un treno alle sei di mattina e si volevano vedere Roma, oltre a festeggiare i loro amici. Quelli che tutto va bene, come quando i miei amici son venuti a trovare me, dal nordest, ed era il primo anno che stavo qui, quando ancora baciavo tutti, per tenere radici un po’ ovunque.

E’ più di tutto alle radici che pensavo, all’angolo, mentre si brindava, si cenava, si scartavano i regali. Mentre mandavo messaggini improbabili e sbagliati (e ottenevo risposte prevedibili, e altrettanto sbagliate). Pensavo alle transizioni come quella che sta accadendo a me, che ho iniziato a esser pagata per fare quello che ho fatto nell’ultimo anno. Pensavo a me che chiamo agenti immobiliari per cambiare casa. Pensavo alle prospettive, a dove vivrò tra vent’anni, ad un amore che magari troverò, a un certo punto, e rimarrà, a qualche amore che ho perso, ai figli, alla fortuna che ho ad avere i genitori che ho, alle esposizioni est-ovest e ai divani fatti con i bancali verniciati, con le rotelle. A Leo che è un’ispirazione, e sorride, e mi dice da genitore ti posso dire (e improvvisamente mi fa realizzare che ho un’amica con un figlio), a V. che ha una storia da nove anni e di anni ne ha ventisei, ché ci sono ancora, quelle situazioni così, delle coppie longeve e belle, ce n’è una in ogni giro di amici, e gli altri li guardano e non sanno se essere felici, o strani, ma sicuramente non capiscono.

Ti penso. Stanno cambiando tante cose… e mi manchi un po’
Anche io ti penso spesso. Tante cose in meglio?
Direi di sì, ma c’è tanta stranezza e confusione. Comunque in meglio, sì.
E mi manchi un po’.

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Out of town.

Ho preso un treno e attraversato due paesi. E’ il mio viaggio di lavoro in solitaria, per esplorare solitudini e soddisfazioni, per progettare piani e insieme giustificarmi, ché mica l’ho cominciato, il PhD, mica è il mio settore, questo, mica ho un grande e cazzuto gruppo alle spalle, io. Ho solo un mentore che mi capisce, e quando gli scrivo ‘non è furbo continuare a mandarmi per conferenze, al ritorno romperò ancora più le scatole‘ risponde ‘io non faccio cose furbe, ma cose giuste’.

Sono in questa città da cui non sapevo cosa aspettarmi e che, forse proprio per l’assenza di aspettative, mi piace.

A osservare luoghi possibili. A capire le chiacchiere (inglesi o tedesche), a conoscere soggetti leggendari, ad approfittare della cena in un posto dove, da sola, non sarei stata mai. Ad elaborare connessioni. A rifarmi con il nuovo entusiasmo delle delusioni della settimana passata. Ad assaggiare nuovi orizzonti.

A., ancora A., si insinua nei pensieri. Lui e il suo regalo per la mia laurea, lui e gli imbarazzi, e le distanze sempre più brevi. Io che dico forse non dovremmo vederci più nell’istante esatto in cui sto pensando che non c’è, nonostante tutto, al mondo, almeno in questo momento, una persona che mi faccia stare così bene. Lui che, finalmente, mi bacia. E mi ripete tutto quello che io, con la solita, pallosissima, lungimiranza, avevo dichiarato mesi fa: noi dobbiamo essere una scelta. E quando gli dico mi manchi dice anche tu, e mi regala in un momento la conferma di non essere impazzita, a passare un’estate a rimuginare su quello che eravamo (stati). E mi racconta che è stato difficile. E io vorrei prenderlo a pugni e invece dico quello che penso, tanto ormai siamo su questa strada, inutile forzarsi a scegliere un’altra direzione. Aspettiamo, ancora, e nel frattempo torniamo a vivere. Questa è la risposta.

E’ iniziata una parte nuova della mia vita. E mi sa che ho trovato lo spirito giusto.
E staserà brinderò, da sola, alla mia impresa.

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La storia

Strigiamoci la mano, cari colleghi, ché dopo mesi divisi equamente tra l’attendere e l’affrettarsi, una porta si è aperta per noi tutti (e tutte, dovrei dire, ma l’osservazione importante è che le donne sono poche, poche) per il brillante mondo del precariato accademico. Abbiamo vinto, ho vinto il mio metaforico personalissimo pony. E ci sarà da pensare, dopo, adesso mi concedo solo la gioia e la sensazione di aver fatto mia la strada che più desideravo.

Mi resta il rimpianto del mio amico G., che è la brillante e sfortunata vittima designata della spartizione della torta, per quest’anno. Ci sarebbe stata in ogni caso, la vittima, e io riformisticamente speravo solo che non fosse lui. Sono arrabbiata e triste per questo, e spero tanto che il mio Babbo Natale personale possa tirare fuori dal cilindro una soluzione, ma non lo so, se c’è, e anche questo è diventare grandi (e fa un po’ schifo, a dire il vero).

Mi resta la perplessità di cominciare a tornare alla vita vera e trovarmi aliena in mezzo ad amici e persone di prima, con i miei capisaldi trasferiti (definitivamente, o no, ma comunque per troppo tempo) a migliaia di chilometri da qui.

Mercoledì mi laureo, e poi sarà ufficialmente l’inizio di una nuova fase.
E c’è da dirlo, sono stata proprio brava.

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Il bello dietro l’angolo [bis]

…prevedo che nelle prossime settimane inventerai qualcosa di bello quasi come le rose. 

Questo l’ha detto R.B. e io non volevo scrivere prima di essere sicura, al cento per cento, di quello che scrivevo. Per scaramanzia. Ma si dà il caso che queste pagine siano il monitoraggio delle mie sensazioni, il diario, la storia, per i tempi futuri. Quindi, ecco qua.

Oggi ho saputo che con buone, davvero buone probabilità, mi si aprirà davanti la strada che desideravo di più. La prima, la migliore. E ho fatto tutto da sola, e mi sono snaturata, stancata, innervosita terribilmente, drogata di serie tv discutibili per arginare l’ansia, ma sono lì. Il bello è a un passo. E io sono felice.

E posso dirlo?
Era ora.

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Idilli

Decidere la vita in tre settimane, alla mercé di chi ti giudica, fa schifo.

Fare esami farlocchi, per cui non hai speranza e la commissione, per giunta, ti è avversa, fa schifo.

Accorgersi ad un tratto che il tuo sex appeal ha smesso di marciare al tuo fianco (verso grandi traguardi…?) ma ad un certo punto, semplicemente, si è voltato se se n’è andato per i fatti suoi, fa quasi altrettanto schifo.

Quindi non me ne voglia il karma se oggi ho comprato un amaro per una cena tra amichetti, e quando il farmacista che mi ha venduto il collirio (ho anche l’orzaiolo, n.d.r., perché il mio corpo sta per dire basta allo stress) ha sbagliato con il resto, regalandomi dieci euro e, metaforicamente, l’amaro suddetto, non ho protestato.

Passerà.

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Di porte e portoni [e una finestra, magari, piena di sole]

Per dovere di cronaca,

navigo in un mare inquinato di ingiustizia, raccomandazioni, scarso interesse, protezionismo e, qua e là, qualche sprazzo di oggettività (scientifica).

In questi mesi ho costruito una sicurezza che non avevo mai sperimentato, prima.

E’ mia, e mi sta impedendo di andare fuori di testa di fronte ad ingiustizie palesi e sfortuna. Perché tutti mi hanno detto a questi concorsi non potrai evitare il fattore C ma finora di fortuna, da queste parti, non se n’è vista neanche un po’. So che sono brava, però, che sto resistendo perché questo è il lavoro che voglio (lo sarà, credo, per i prossimi anni almeno). E resistere paga, pare. Anche se c’è ancora molto in sospeso (molti giorni fino al 15), resistere paga. Perché nonostante quella lista non fosse la mia prima scelta, ora c’è scritto il mio nome sopra, e mi sono assicurata uno stipendio per i prossimi tre anni. E quindi respiro, almeno un po’.

Ma avere una scelta di serie B è davvero meglio di non averla affatto?

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La prima volta

Il primo concorso della vita (suppongo) è qualcosa che si ricorda, negli anni.

C’erano i compiti troppo, troppo facili, cosicché se per disattenzione o qualche altro motivo hai una defaillance rischi di giocarti la chance più importante. C’ero io con la valeriana e l’acqua Ferrarelle che, a 2 ore e 45 dall’inizio, ho pensato ‘non mi sono impanicata di brutto, ancora, poteva andare peggio’ (è successo un’ora dopo, ndr). C’erano le polemiche che quelli delle ultime file avessero lo smartcoso con internet e potessero copiare, e la commissione che fa? Dorme, che devono esser buoni. Dorme, che vuoi che faccia?

Insomma non sono soddisfatta, ma neanche tremendamente delusa, e per gli esiti di questa prima prova si deve aspettare dieci giorni e, a giudicare dalla nottata, mi aspettano notti a svegliarmi all’improvviso accorgendomi di errori fatti nel compito, nel bel mezzo di sogni (quasi) rassicuranti popolati di un universo di colleghi, tra i quali il più carino mi trascina in una camera e fa l’amore con me. E il più carino di loro, comunque, a me non piace. E’ che l’universo limitato produce distorsioni.

Domani ci si riprova, altro giro, altra corsa.

L’idea che ottobre debba continuare così, fino alla fine, mi destabilizza assai. Ma almeno è arrivato. E per la centesima volta posso dire, speriamo passi presto.

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Ho fatto un tuffo

Ho fatto un tuffo
nella vita mono-tema.

Lo studio mi inghiotte, mi risucchia le energie e sputa ossicini di me che presentano al mondo esterno una personalità mediamente molto diversa dalla mia, quella che c’era prima.

Riesco a relazionarmi in modo sereno solo con chi vive insieme a me questo periodo tritacarne e nevrotico.

Ci sono dei lati positivi, però.
Come il Prof visibilmente colpito dal nostro impegno di squadra, che non sa far altro che portarci schifezze cioccolatose per mostrare la sua solidarietà. Come amici intelligenti, interessanti, pacati e ritrovati. Come avere una scusa per provare modi diversi di stare nelle situazioni (e avere una scusa per fuggire in qualsiasi momento). Come il fatto che a me, quello che studio, piace tanto.

Ricomincerò a vivere (manca solo un mese).

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